Roba di 50 anni fa che scrivo per quando non ricorderò nemmeno più cos'è un sito internet. Allora – era il 1969 o il 1970, non ricordo bene – passare il Frejus era un fatto pittoresco: con la 500 d’ordinanza si saliva a Modane sul pianale di un carro ferroviario, il treno partiva verso Bardonecchia e si stava in macchina nel buio più assoluto per 20 minuti. Ziiiiipp, e fu strano e bello (non ero solo), sotto 2000 metri di roccia, nel clima familiare dell’alcova ambulante dei figli della borghesia. E’ da allora che sono a favore dei tunnel ferroviari. Tanto sono più lunghi, tanto meglio sono. 

Tornavamo da Parigi, ci eravamo autonominati ambasciatori del Movimento torinese, sotto la saggia guida del “comandante” M., gran barbone nero ed eskimo, che vantava contatti presso Maspéro, Paris, libreria in quel Saint Germaine ancora caldo per le barricate del maggio, e soprattutto ricco del Francofascino della Sorbonne. Eravamo partiti da Torino con qualche maneggio nei confronti delle famiglie: io con la fida BCM (Belin Che Macchina!), la mia accompagnatrice, che aveva simulato in famiglia non so quali improbabili impegni outdoor, e B. con una fantozziana 850 coupè sottratta al padre, che accoglieva gli altri avventurosi compagni tra zaini e sacchi a pelo. Questa mitica voiture da impiegato FIAT manifestò quasi immediatamente problemi al radiatore, tra le nevi del colle dell’Iseran, risolti poi da un depanneur montagnino discendente dei briganti che taglieggiavano i pellegrini sui valichi alpini ai tempi di Re Cozio. Ci costò una fortuna, le con, ma il radiatore, trattato con misteriosi intrugli druidici, tenne botta, consentendoci di proseguire, ma a velocità moderata e con frequenti soste di raffreddamento tra pittoreschi sbuffi di vapore. 

Arrivati infine alla Ville Lumiere, ci accolsero chez Maspéro  i camarades d’oltralpe, che, a sollievo delle nostre immediate necessità, ci proposero di risolvere il problema dell’alloggio in soffitte di cui ricordo ancora con sgomento l’aspetto cupo e scalcinato. La condizione era partecipare la sera alle riunioni politiche – in francese - del gruppo di anarchici di cui erano membri, nel nome dell’internazionalismo proletario e della solidarietà con i compagni d’altri paesi. Ci squagliammo quasi immediatamente (e non solo per i nostri evidenti problemi linguistici), e tentammo di trovare asilo – guidati da qualche soffiata - alla Sorbonne, presso la Maison d’Afrique, dove soggiornavano gli studenti del sud del mondo. In effetti c’erano alcuni alloggi di contrabbando lasciati liberi da studenti momentaneamente fuori sede, che B. e gli altri prontamente e clandestinamente occuparono. Io però mi sentivo borghesemente insicuro per gli sguardi che mi sembrava la mia accompagnatrice scambiasse con i tanti fustacci abbronzati che si aggiravano per i corridoi, e allora chi ci evitò i ponti della Senna fu C., fanciulla torinese, mai più incontrata da allora, amica di amici incrociati per caso. C. ci accolse infatti a passare le nostre notti nella soffitta che condivideva con il suo compagno (assente in quei giorni), in una delle vie del quartiere della Tour Eiffel.

And you, you took me in,
You loved me then, you never wasted time.[1]

Niente letti però, solo il duro pavimento, con il suo freddo rigore appena ammorbidito dai sacchi a pelo versione Vietnam imbottiti di kapok e made in Baloon, Torino. Furono notti dure, ma anche giorni meravigliosi, di moutarde, saucissons et bière, spesi a vagare per musei, boulevard e marché aux puces, dove ci comprammo delle stupende mantelle blue notte da collegiale (c’era ancora l’etichetta con il nome di chi se l’era venduta). La portai con orgoglio per tutti gli anni del Politecnico, e mi vanto nel dire che feci tendenza.

Ma l’errore più grosso fu forse di affidare la cassa comune a D. alla partenza da Torino: D. era il genio tra noi, e come tale ispirava fiducia. Era colui che superava impossibili esami del Poli senza studiare: conosceva solo – le aveva capite molto bene - le leggi fondamentali della fisica, e ogni volta rispondeva alle domande d'esame di arcigni professori ricostruendo al volo le risposte a partire da quelle, usando le doti matematiche che possedeva a sua insaputa. Dopo un po’ di vino in piola, arrivava perfino a sostenere di aver preso 29 in meccanica razionale grazie ad un felice e concomitante stato di ebbrezza alcolica. Ne avremmo dovuto diffidare dopo che ci raccontò di aver avuto visioni di fontane triangolari e galli dal palato di velluto rosso, sotto l’effetto di certe robe che gli aveva passato un amico che si era poi perso per lunghi anni in India prima di diventare un softwarista della IBM, ma eravamo giovani e ingenui. D. diventò poi un guru all’ESTEC, l’agenzia spaziale europea, sempre probabilmente a sua insaputa. Allora si limitava a propagandare la necessità politica e sociale di aprire il Poli al popolo installando sale da biliardo nei suoi sotterranei e di fungere talvolta da nostra guida intellettuale. Ricordo benissimo un cinema d'essay dalle parti del Trocadero dove ci convinse ad essistere ad un film d'avanguardia giapponese sottotitolato in francese: fui colpito in particolare da una scena di 20 minuti rigorosamente in bianco e nero, un primo piano di un paio di zoccoli giapponesi in una pozzanghera sotto una pioggia battente. Ce la filammo di soppiatto non appena possibile.
Al momento della partenza da Parigi, quando gli fu chiesto quindi di ridividere i soldi della cassa, D. dichiarò in tutto candore di averne speso buona parte (non ne era rimasto molto dopo il depannage) in souvenir. Uno, ricordo ancora, da portare alla sua mamma: una terrificante tour eiffel in finto bronzo lunga una ventina di centimetri. Dopo averlo minacciato di impiccagione all’insegna liberty della metrò che dominava il luogo della discussione, facemmo il conto di quello che restava, scoprendo con malcelato sollievo che ce n’era ancora abbastanza per un’ultima steak avec frites per tutti, e la benzina per il ritorno. Fu l’ultimo pasto ragionevole prima del rimpatrio. Nel viaggio di ritorno, fummo obbligati a soddisfare la fame con piccoli espropri proletari in supermercati di provincia, facilitati dall’ampiezza delle nostre mantelle, che ci proteggevano dagli sguardi delle cassiere.

Ah, ancora una cosa, importante: il mangiadischi; lo tenevo sotto il sedile di guida della cinque piotte, e, mentre guidavo, ficcavo dentro i 45 giri di Bob Dylan facendoli passare tra la gamba della frizione e quella dell'acceleratore. Fu allora che decisi che “Hey Mr. Tamburine man” sarebbe stata la mia funeral song.

E del resto, sia M. che D. e anche C., se ne sono andati, assieme ad altri ancora. B. ed io resistiamo invece implacabili.

[1] Bob Dylan: 4th time around, Blonde on Blonde, 1966

Commenti  

# Crosstalk 2019-04-13 21:01
# Enrico 2019-04-13 23:12
Che fantasia! Ma sarà tutto vero. Io ero a fare il militare, poverino ....
# Crosstalk 2019-04-14 13:54
Belin se è vero: chiedi a B.!!
+1 # PGRAECO 2019-04-14 12:04
A Parigi, con una macchina scassata e ... tutto il resto: sembra un'altra avventura che accomuna molti politecnici. Quant'è bella giovinezza / che si fugge tuttavia!

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