Tutto cominciò la prima volta che capii di essermi stufato di lavorare: non che lavorare fosse malaccio, la materia era interessante, ma un po’ meno lo erano gli umani che mi circondavano; erano organizzati in gerarchie che spesso non riconoscevo o finalizzati ad obiettivi che condividevo solo in parte o per nulla.

L’Olivetti se n’era andata, e nel turbine del passaggio del mercato dalla tecnologia dei computer a quella della telefonia mobile, mi ritrovai a cambiare parecchie volte azienda pur rimanendo sempre seduto alla stessa scrivania, grazie agli gnomi del vendi baratta e scambia aziende, che agivano – quali dei dell’Olimpo – da altezze per me siderali.

Nel passato avevo fatto di tutto per diventare dirigente (ecchecazzo, io no?), ma possibilmente senza pagarne lo scotto associato, che consisteva nello smettere di lucidare i bit e occuparsi di blefulonica (che sarebbe la scienza del bla bla attraverso la scrittura di slide): la via maestra per far carriera, a parer di molti, purché costruita con pazienza nei corridoi di palazzo dopo le 6 di sera tra un pettegolezzo e l'altro. Le aziende USA invece avevano un modello diverso, piuttosto chiaro: carriera da consultant per chi voleva fare il guru, manager che chi ambiva a comprare la carta igienica per i cessi dei guru (estremizzo per farmi capire), e tutti a casa alle 5 del pomeriggio. Qua da noi, chissà perché, questo discorso non passò mai. Penso perché negli USA c'erano aziende guidate dai fondatori della forza di Ken Olsen, Steve Jobs, Bill Gates, in seguito Bezos, Page, Brin etc. Da noi vigeva invece il modello Mediobanca, rappresentato da grigi gnomi gobbi esperti di finanza che popolavano i buoni salotti milanesi. La differenza era che i primi capivano quello che gli capitava in casa, mentre i secondi - per i quali fare computer o scarpe era sostanzialmente la stessa cosa - non capivano nulla, e cercavano solo di passare il cerino acceso a qualche altro gnomo quando le cose cominciavano ad andare male. Oppure ambivano - i più pirati - a predare altre aziende per farne spezzatino. Quelli che Baffino chiamava "capitani coraggiosi". Infatti si è visto come poi è andata a finire.

Dal mio osservatorio personale, ogni volta si ricominciava da capo: se compravamo noi, tutto sommato poteva ancora andare, se ci compravano gli altri dovevo spendere un sacco di energia a spiegare ai nuovi capi cosa stavo combinando e competere con le funzioni aziendali del compratore che più o meno facevano le cose che facevo io, in una stupida gara a far vedere chi era più bravo. 

Ogni tanto veniva qualcuno dall'alto a propormi il trasferimento in slum milanesi o in periferiche borgate romane facendomi intravvedere mirabolanti carriere manageriali percorse sgomitando tra yuppie arrapati da porsche e platinate: prospettiva che ha sempre avuto l'effetto di deprimermi invece di eccitarmi. In particolare a causa dell'aspetto deprimente dei residence in cui avrei dovuto passare solitarie serate dopo lunghe giornate passate a tirare rasoiate ai cari colleghi.

Il mio piano prevedeva piuttosto, dopo lo squagliamento dal mondo produttivo, di passare la vita in un giro infinito per le coste italiane (e non), per costruirne un catalogo. Il tour era da realizzarsi tramite un furgone (ne vidi uno della Ford, usato, rosso) che avrei attrezzato allo scopo. Passai quindi ad una sorta di progetto di dettaglio degli interni, minimalista e ben lontano da tutte quelle fesserie tipiche dei camper e delle roulotte (lampadari in finto pizzo ed altre belinate di questo genere), che tendono a ricostruire, chissà perché, in una scatola che viaggia, tutta una serie di simboli piccoli borghesi tipici dei salotti di Düsseldorf o della Brianza. La cucina sarebbe stata esterna, ospitata sotto il portellone posteriore aperto, le cuccette in una struttura a castello realizzate in compensato marino e sospese con corde elastiche, ed infine ci sarebbe stato un posto speciale per il computer, una specie di microtavolo con sgabello incorporato e presa per l’alimentatore, che sarebbe stato il vero centro delle attività. I servizi igienici quelli dei camping o il cespuglio nel bosco.

Poi la vita si premurò di cambiarmi le priorità (ma non è detto che non riesca ancora a realizzare il mio piano). Nell’attesa cominciai senza furgone, nel corso dei soliti viaggi in giro per i parenti, e qualche volta per lavoro. Munito di macchina fotografica e registratore, mi ripromisi ogniqualvolta avessi visto una bella costa, di registrare il suono del mare, fare un po’ di foto e annotare le condizioni meteo. L’idea era che ogni costa avesse una sua propria voce (spiaggia, roccia etc.) modulata dalle condizioni meteo correnti. Nel corso poi di un progetto di ricerca, mi accorsi che alla università Pompeu Fabra di Barcellona avevano avuto, naturalmente più grande, più o meno la stessa idea: quella di raccogliere ed analizzare i suoni del mondo; il gruppo con cui ero in contatto aveva in realtà un obiettivo più preciso: caratterizzare e catalogare, sotto diversi aspetti - tipo, sentimento etc. - la musica: l’idea, poi realizzata, era di riuscire a chiedere alla rete cose del tipo: “ehi, stasera ho una serata romantica, preparami una play list di musica adatta”, oppure “ascolta questo brano, vorrei sapere titolo e autore”. Ora è semplice, sono funzioni acquistabili per qualche euro da qualunque store per smartphone, ma allora non era banale, e l'Unione Europea riuscì a spenderci sopra qualche milione di euro.

Il risultato dei miei sforzi (senza finanziamenti EU) fu il mio primo sito, costruito in modo primordiale (salvando come HTML quanto prodotto da Microsoft Publisher) che tenni per lungo tempo su un mio server personale a cui avevo concesso di servire richieste HTPP provenienti dall’esterno, ma che funzionava, visto da fuori, in modo penoso, data la miserrima capacità di banda in upload della mia connessione internet di allora.

Successivamente, quando comprai uno spazio di hosting da un provider professionale, trasferii il sito sotto il mio dominio marralabs.it: il risultato è quello che potete vedere cliccando qui a sinistra su “le pagine di Risacca”.

Nel frattempo mi ero letto “In Patagonia” e la “Vie dei canti” di Bruce Chatwin, e rimasi affasciato da suo modo di tenere gli appunti di viaggio. Mi comprai quindi una moleskine (io scelgo sempre i tool migliori), una collezione di matite (HB, 2B, 4B, 6B), un temperino (il coltellino, bello affilato, non quello con il buco che ci si ficca la matita dentro e poi si gira, perché le punte alle matite si fanno come le fanno i veri ingegneri e architetti, e non le femminucce), una gomma, una gomma pane, un astuccio rosso, e cominciai ad alternare all’uso del registratore e della macchina foto, quello della mano libera, cercando di ricordarmi le nozioni che mi avevano insegnato ad architettura nel corso di disegno dal vero: argomento, sempre le spiagge; il risultato lo trovate qui accanto, sotto la voce “moleskine”.

Ma la vera scoperta è stata un’altra (confermata da due mie amiche si dedicano tuttora allo stesso hobby): per disegnare è necessaria una condizione di pace mentale non necessaria all’altra tecnica, con la quale si può operare anche durante rapidi viaggi, prima di un appuntamento o durante una pausa per il panino. Con il disegno invece devi entrare in uno stato mentale di tempo infinito: il fine è il disegno, e non ve ne sono altri; la giornata deve scorrere lentamente in ore dilatate, senza nessun impegno all’orizzonte.

Sarà forse per questo che non ci sono più riuscito.