Sperlonga Fondi Roma ott. 2010 027
Il primo problema del giorno era l’evacuazione. Non mi andava il piccolo stanzino accanto alla cucina nel quale si cacava tra ragnatele e ronzanti vespe. Allora mi sdraiavo sulla mia tavola da windsurf e pagaiavo fino al centro del lago. Di mattino presto, prima delle brezze di ponente, il lago era uno specchio celeste con i bordi di verdi canne dai gialli e vaporosi pennacchi, sotto l’immensa cupola azzurra del cielo. Sull’orizzonte, a sud, il profilo glauco dei monti Aurunci. Cacare in acqua mi è sempre piaciuto infinitamente: ci si sente estremamente leggeri mentre ci si libera con facilità galleggiando senza peso con le mani appena appoggiate alla tavola. Senza contare che il bidet è incorporato e pressoché automatico. Esperienza anche scientificamente interessante: lo stronzo può andare a fondo o tornare a galla, a seconda dei gas che contiene, e quindi del menù del giorno prima. Verdura, a galla; carne o pesce, a fondo! Meditavo allora di scriverci, sull’argomento, un articolo.

Poi, dopo la produzione, la ginnastica: ri-infilarsi il costume, esercizio non facilissimo se non si tocca, per il quale mi avvalevo di passate esperienze da sub che mi avevano donato un certo grado di acquaticità. Infine il ritorno pagaiando verso il pontile, allegro come un gatto saltellante che ha appena fatto i suoi bisogni. Più tardi avrei montato la vela aspettando la brezza di mare. La vela appoggiata sul pelo dell’acqua avrebbe fatto da comodo giaciglio per prendere il sole e per un po’ di pausa tra un bordo e l’altro.

Il lago era quello di Fondi, un bacino costiero di forse una decina di chilometri, subito a sud di Terracina, separato dal mare da una sequenza di dune che arrivano a Sperlonga, una volta splendide nella loro solitudine da malaria, ma ormai irrimediabilmente rovinate da alberghi, casette, camping, distributori, alberghi, parcheggi abusivi, vu’ compra’, venditori russi di canne da pesca e binocoli e italiani di angurie e paccottiglie da spiaggia in plastica, effetto dell’Italia del maleducato e incivile benessere. La spiaggia, residua striscia tempestata di plastica e bucce di cocomero tra la battigia e muretti abusivi pericolati dall’onda invernale, affollata di famiglie ciociare con vajasse oppresse da pesanti borse frigo traboccanti angurie e lasagne. Nutrimento sotto striminziti ombrelloni di obesi ragazzini dai costumi dai colori impossibili, muniti (i ragazzini non i costumi) di secchielli con cui torturare sadicamente innocenti granchietti di sabbia e altre innocue creature.

Un terreno a cui si arrivava scendendo dall’Appia di Orazio una perigliosa discesa era la casa di mio suocero S.. S. non ha mai avuto una gran senso della famiglia, con la quale aveva giocato per lungo tempo in un estenuante ci sono e non ci sono, perennemente attratto da alternative esistenziali da eterno fanciullo: giocattoli come moto, barche, camper e storie con altre donne.  Aveva poi raggiunto l’importante obiettivo di una pensione concessa ancora in età giovanile, giustificata dagli anni di guerra e di lotta partigiana, e dalle mille agevolazione della bonaria Italia democristiana. Il che gli concedeva di poter disporre liberamente del suo tempo, dei suoi soldi e di se stesso.

Prima del lago, viveva i periodi di fuga dalla famiglia in una bella barca a vela, un Arpege di 12 metri, l’Agreste, varata in Normandia e ormeggiata nel porto di Terracina. Lì aveva stabilito tutta una rete di contatti sociali con i rappresentanti del potere locale reale ma non ufficiale, in particolare con un tizio – G. – che faceva – nominato da se stesso ma riconosciuto da tutti - il guardiano del porto, assicurando sicurezza agli “amici”, aiutando negli ormeggi e maneggiando in traffici vari. Un vero ras del piccolo cabotaggio. G. e S. spesso lavoravano insieme come marinai, in traversate effettuate su ferri da stiro da portare altrove, mollati in porto dai loro armatori che, finite le ferie, non avevano avuto tempo di riportarli alla base.

Essendo un uomo bello, alto, intelligente, colto, di sinistra, un vero radical chic della costa, con un certo fascino marinaio alla Corto Maltese, libero e dotato di barca, S. vantava grandi successi in ambito femminile. Insomma, come si può intuire, aveva tutta la mia ammirazione condita da un po’ di invidia, per la storia della pensione ma anche per la sua libertà personale e per la barca.

Laureato in agraria, prima della pensione aveva svolto servizio presso un ente statale – poi declassato a ente inutile – che aveva lo scopo di assicurare un futuro agli orfani dei lavoratori italiani (ebbene sì, allora lo Stato si occupava degli Orfani dei Lavoratori Italiani), e in questa veste aveva gestito gli aspetti amministrativi e agrari di stupende tenute in Maremma e altrove. Una di queste – a Rispescia – si vede percorrendo il tratto di Aurelia che costeggia a sud di Grosseto i Monti dell’Uccellina. Un colle in mezzo al giallo del grano e sotto l’azzurro del cielo italiano con un casale e grandi pini marittimi. Il nome – sempre lo stesso - delle sue barche derivava proprio da questa sua amata professione, l’agreste.

Poi arrivò il redditometro: l’ottusità benpensante e burocratica del provvedimento non prevedeva che uno vivesse in barca in quanto casa sua, ma assumeva per principio che un proprietario di barca fosse necessariamente un ricco sfondato con appartamento ai Parioli o ai Prati. S. tentò di difendersi, ma non ci riuscì, e dovette pagare una somma credo notevole. Incazzato nero decise di far perdere per quanto possibile le proprie tracce, per cercare di sfuggire ad uno stato così poco romantico da non aver mai letto nemmeno i Racconti dei mari del Sud di Jack London. Una burocratica repubblica di square non lo meritava di certo.

Vendette la barca e si comprò questo pezzo di terreno alluvionale tra l’Appia e le canne della sponda del lago, con dei filari di albero di pero che producevano senza bisogno di alcuna cura una infinità di buonissime pere coscia. Il terreno d’inverno con la pioggia e sotto scirocco si allagava per il mare che alzava il livello del lago. Il problema fu risolto da S. sfruttando le sue competenze professionali: piantò una palizzata di pali sotto un gruppo di frassini, al confine delle canne, con sopra una piattaforma. Sulla piattaforma issò un box di zinco originariamente destinato a garage, foderò il tutto con canne palustri e con una copertura in assi, costruì sul lato che dava verso il lago una cambusa e la toilette prima descritta, riempì questa sua tana con una branda, una libreria e innumerevoli libri, e lì si installò, sotto ai fili da cui pendevano i suoi abiti. Con l’acqua alta indossava stivaloni da pescatore per uscire di casa. Niente acqua corrente e niente luce: nessuna bolletta o registrazione nelle banche dati di una società ostile. Una radio a transistor per sentire le notizie dal mondo, e i suoi amici animali per compagnia.

Un serbatoio issato su un palo forniva l’acqua per la cucina e la toilette: ma andava ricaricato, cosa che veniva fatta ogni mattina mettendo in modo un rumorosissimo motorino agricolo, che pescava un’acqua fantastica da una generosa sorgente affiorante l’acqua dei monti Ausonii. Per la luce all’inizio si faceva con il lume a petrolio, in seguito sostituito da un gruppo elettrogeno fracassone che dava energia a tremolanti lampadine appese sul tavolaccio dove si mangiava, sotto i frassini e gli eucalipti, fatto da assi inchiodati coperti da un’incerata, e usato la sera per interminabili partite a tresette e scopone. Innaffiate, queste ultime, da un certo limoncello extra strong, fatto con limoni provenienti da campi che avevano allargato la proprietà originale, ricchi di ortaggi, aranci, fichi, olive e pompelmi, e poi lasciato a rinforzare per un po’ di giorni al sole del basso Lazio. Il gusto della divina infusione rovinato però dall’onnipresente aroma di Autan e dai suffumigi di molteplici zampironi: al calar del sole mollava la brezza di mare (talvolta veramente forte), e istantaneamente si diventava cibo per nugoli di innumerevoli zanzare che si alzavano dalle canne, munite di pungiglioni in grado di passare il più spesso dei jeans.

S. ogni tanto faceva lo skipper, affittando le propria perizia marinara a milanesi imbruttiti muniti di barca propria o affittata, ma incapaci di distinguere la prua dalla poppa. Faceva anche da cuoco di bordo e cambusiere, in spedizioni di una settimana o due sulle coste della Corsica, di Ponza o di Giannutri. Noi approfittavamo di queste sue competenze spingendolo a far la spesa e a cucinare certi piatti di pesce fritto, causa poi, con il moscato di Terracina acquistato in bottiglioni da 5 litri, di estatici rincoglionimenti durante l’ora di Pan, perduta in clamorose penniche sotto l’ombra di frondosi eucalipti o – ripulito il terreno dalle pigne – di verdissimi pini marittimi nell’assordante canto delle cicale.

Sul lago la barca in dotazione – tra le altre - era il “Mezzo Toscano”. Ce n’erano due o tre, oltre a questa: un vecchio optimist a vela, una barchetta da palude di alluminio, una barca da pesca in legno fatta in certi cantieri di Gaeta, che era il cruccio di S. a causa del fasciame qua e là fradicio: raccontava infatti di come quei figli della nutrice di Enea lo avessero fottuto, utilizzando legname non adatto al mare, contrariamente agli accordi stipulati e alle regole del mestiere. Gli abitanti di Terracina per lui invece erano i Lestrigoni, discendenti dei feroci mangiatori di carne umana e sterminatori dei compagni di Ulisse. Giustificato in questa sua opinione dalla non eccessiva urbanità di questi abitanti la foce dell’Amaseno, forse perché pronipoti di galeotti condannati da vari papi al bagno penale in mezzo alle paludi pontine.

Il Mezzo Toscano, tra tutte la mia barca preferita, era di origine militare, una lancia da pattugliamento fluviale scovata da S. presso una ditta produttrice di torrette da carro armato di Ascoli Piceno, che ne aveva venduto un certo numero per operare al soldo di sanguinari mercenari sul fiume Congo. Nel suo caso rinunciò però alla mitragliatrice di prua perché avrebbe impedito di prendere comodamente il sole, e la battezzò con un nome che ricordava le sue origini e il suo modo preferito di fumare. Il Mezzo Toscano, un 6 metri di alluminio grigio e basso sull’acqua, con un gran ponte bianco per prendere il sole e pescare, fece così la sua comparsa ormeggiato al pontile. Il lago alle sue due estremità comunica con il mare aperto con dei canali, uno dei quali in gran parte corre tra fruscianti pareti di alte canne lacustri. Per me una gran gioia da percorre, verso le spiagge di Sperlonga o il Circeo, o semplicemente per un bagnetto al largo di Terracina (avrei voluto ma non sono mai riuscito a spingermi fino a Ponza). Con un bandana rosso arrotolato intorno alla testa, in quei momenti ero il capitano Willard di Apocalypse Now mentre risale il Nung in Cambogia, alla ricerca del disertore Kurtz: l’orrore, l’orrore. Nella mia mente risuonava The End dei Doors, tra il sordo pulsare dei chopper che riempiva l’orizzonte e il profumo di napalm sulla collina.

All’imboccatura del canale le onde si gonfiavano sullo scanno di sabbia che segnava l’inizio del mare, e dando di manetta scatenavo i 40 cavalli dello Yamaha facendo impennare contro l’onda la prua, per far ricadere poi con un gran tonfo la chiglia nel cavo in un tripudio di schizzi, prima dell’entrata in planata sui fondali scuri di posidonie.

Seguiva talvolta parata con questo arcigno mezzo tra le barche di plastica bianca luccicanti di cromi ancorate a fare il bagno, a marcare la differenza (del tutto immaginaria) tra la rude e genuina gente di mare (noi) e i fighetti (gli altri) che andavano a fare il bagnetto la domenica con tanto di suocera a bordo. Talvolta suscitando moti di sgomento tra i familiari equipaggi, quando ci scambiavano per un mezzo della finanza venuto a chieder conto dei loro estintori e razzi di segnalazione. Finanza che invece una volta beccò noi, che stavamo tranquillamente pescando forse un 300 metri al largo. Ci abbordarono con una specie di incrociatore da battaglia irto di antenne con cui avrebbero potuto andare a sorvegliare la Costa degli Scheletri nella Namibia settentrionale, ci agguantarono con un rutilante mezzomarinaio e si misero eroicamente a rompere i coglioni fino a trovare l’estintore scaduto. Trionfanti i nostri eroi ci appiopparono una multa stellare e varie intimidazioni circa nuovi estintori da comprare nelle successive 24 ore, per poi partirsene tra due enormi baffi di prua e tornarsene nel vicino porto a prendere il caffè e a vantarsi tra loro dell’eroica missione così brillantemente portata a termine.

Noi si viveva in una grande roulotte, acquistata in comproprietà con mio cognato L. nella vana speranza di convincere S. ad uscire dalla tana almeno in inverno, per venire a vivere in un riparo più asciutto e pulito, con tanto di stufa a gas e boiler. Ci si svegliava al mattino per il caldo del sole che batteva sui finestrini e al rumore della pompa dell’acqua e di innumerevoli altri motorini agricoli che infestavano la campagna circostante. Vicino alla roulotte, un grande camper che S. aveva comprato in un momento di esaltazione infantile, che aveva usato pochissimo, e su cui la natura prendeva lentamente ma inesorabilmente il sopravvento, tra ruggine, pneumatici a terra e nidi di topi. Restava però il suo luogo preferito, forse perché tenuto fresco dall’ombra di uno stupendo pino marittimo, e lì si ritirava nel pomeriggio a scrivere i suoi libri, che poi io pubblicavo a nome suo su ilmiolibro.it. Bisogna dire che S., come i suoi progenitori contadini (primo di sei figli), aveva una gran senso del riciclo, e si ingegnava a tenere in piedi le cose che aveva con infinite riparazioni: arte suprema contadina, l’impiego quasi universale del fil di ferro, da rappezzi ai finestrini del camper al restauro di vecchi remi altrimenti inutilizzabili, con un risultato estetico – ma qualche volta anche pratico – in molti casi sconcertante.

Dall’altra parte della fonte, contornata da fiori, un’immensa nube di profumato gelsomino affollata di ronzanti insetti nascondeva altre tre costruzioni di legno, originalmente pensate per accogliere schiere di ospiti, con cuccette in stile marinaro. Lentamente trasformate però in depositi di attrezzi, vele, cime, remi e vecchi motori fuoribordo contornati da pile di salvagenti e frequentate da tribù di topi festanti in questo gran disordine, nutriti dal neoprene di vecchi gommoni cui avevano inferto insanabili buchi. Appesi al tetto, alcuni kayak e d’inverno la mia tavola da surf.

Coinquilini di S. erano i suoi animali, con cui si intratteneva condividendo la branda in lunghe chiacchierate alla luce del lume nelle lunghe notti invernali. Nel corso degli anni furono molti. I gatti, il rosso Spadolini, la bianca Romilda, la nobile Elisabetta. I cani, Ira, Keba, la bellissima Scigulla, il timido Titiro e Pasqualino e Lazzaro, detto Zuzzi. Pasqualino era un piccolo cane dagli occhi arguti, dotato di una vivacissima intelligenza partenopea, Lazzaro invece (così chiamato perché trovato in fossato mezzo morto), era una cane da caccia perso, a cui S. si affezionò moltissimo: entrambi finirono investiti sulla trafficata Appia, e per entrambi S. se ne fece una mezza malattia. Zuzzi è protagonista di molti suoi racconti in cui S. si interroga sul significato del dolore e sul senso della vita.

S. se n’è andato nel febbraio del 2017. La sua età non era più compatibile con l’acqua alta e il gelido pozzo. L’insediamento era ormai portato avanti dal figlio L., anche lui in pensione, che si era preoccupato di far arrivare l’acqua, la corrente elettrica e di far costruire una casetta prefabbricata – ora diventata la sua casa – anche per tentare di migliorare ancora una volta (ma sempre invano) la situazione logistica del padre. Pochi mesi prima di andarsene S. si era ritirato in una casa di riposo di Monte San Biagio, a pochi chilometri dal lago. Prese la cosa con coraggio e dignità, al punto da scrivere un suo ultimo libro, in cui descrive amaramente questa esperienza, a 97 anni. Se lo volete leggere, trovate qui la versione poi utilizzata per la stampa: Manoscritto dal chiuso.

Ora il pontile sporge deserto tra le canne, il Mezzo Toscano e le altre barche disperse o vendute.

La sua urna è dentro un tabernacolo tra tre frassini di fronte al lago. Da vivo, diceva sempre che per lui quello era un posto sacro, in cui avrebbe voluto erigere un altare pagano alle divinità del luogo. Talvolta brindando versavamo a terra qualche goccia di vino in onore degli antichi dei.

Ogni mattina viene aperta da L. la porticina che chiude l’urna, in modo che S. possa, tra le canne che si agitano al vento, vedere le lame di luce del suo lago.

Commenti  

# Enrico 2019-07-26 15:54
Bravo Franco. Ho letto con molta invidia sia per la storia che per la prosa. Mi stavo solo chiedendo cosa penserà quel professore di letteratura del secondo medioevo che nel 3019 scoprirà questa raccolta di scritti. Riuscirà a cogliere la sottile linea che li collega e a catalogare gli autori tra le innumerevoli scuole artistico-politiche che li hanno allevati?

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